La notizia è un pugno nello stomaco, l'ennesima sconfitta di uno Stato che ha scelto da tempo da che parte stare: quella dell'indifferenza e dell'abbandono.
Un Sovrintendente della Polizia Penitenziaria, 58 anni, una moglie, una figlia, una vita descritta come "splendida" e "dedita al lavoro", si è tolto la vita impiccandosi nell'alloggio demaniale presso la casa di reclusione di Porto Azzurro.
Un uomo, un lavoratore, l'ultimo caduto in una guerra non dichiarata ma ferocemente combattuta all'interno delle mura carcerarie.
L'abbandono di Stato: Carne da macello in divisa e dietro le sbarre
Non chiamateli eroi, non cercate martiri.
Quest'uomo, come i suoi colleghi e come i detenuti che sorvegliava, è prima di tutto una vittima di un sistema marcio fino al midollo.
Un sistema che considera chi finisce dietro le sbarre alla stregua di "feccia della società", scarti umani da dimenticare, e che, con la stessa cinica noncuranza, abbandona i propri dipendenti a gestire una polveriera con mezzi inadeguati, carichi di lavoro disumani e un peso sulla coscienza che diventa macigno.
Le parole di Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, risuonano come un'accusa inappellabile: "Siamo sgomenti per quest'ulteriore vita spezzata. Ancora una morte di carcere e per il carcere."
Ed è proprio così: si muore di carcere e per il carcere, perché le prigioni Italiane sono diventate gironi infernali dove la disperazione è l'unica costante.
Numeri di una strage annunciata: 32 detenuti suicidi, vite che valgono meno?
Certo, le cause di un gesto estremo sono complesse, un groviglio di variabili personali e ambientali.
Ma è ipocrita e vile nascondersi dietro questa complessità quando il servizio in prigioni perennemente al collasso, tra sovraffollamento, violenza e carenza di tutto, diventa il detonatore principale.
Queste non sono semplici tragedie individuali, sono "morti per servizio", come giustamente sottolinea il sindacato.
E i numeri sono lì, a gridare l'urgenza di una verità che si tenta goffamente di nascondere: dall'inizio di questo 2025, questo è il secondo operatore di polizia penitenziaria che si toglie la vita.
Un dramma immenso.
Ma c'è un altro numero, ancora più spaventoso, che testimonia la profondità dell'abisso: i detenuti suicidi, nello stesso periodo, sono ben 32! Trentadue.
Le loro vite, evidentemente, per questo Stato contano ancora meno.
Il dolore dei loro familiari, delle loro madri, dei loro figli, vale forse meno di quello degli altri? È una domanda retorica, la cui risposta è scritta nelle politiche carcerarie di questo Paese.
Il silenzio complice e le mani sporche di sangue del Governo
Questi sono numeri da Paese incivile, da Stato fallito.
E mentre le carceri esplodono, cosa fa il Governo?
Pesta l'acqua nel mortaio, enuncia slogan vuoti, privi di qualsiasi contenuto concreto, quando non palesemente fuorvianti.
Sono cinque, interminabili mesi che il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria è acefalo, privo di una guida, con le carceri e il Corpo di Polizia Penitenziaria abbandonati al loro destino.
Una vergogna Istituzionale che la dice lunga sulle reali priorità di chi ci governa.
Siamo stanchi, nauseati dal ripeterlo: serve una misura deflattiva immediatamente! Un'indulto, un'amnistia, un miracolo!
Qualsiasi cosa, purché si fermi questo massacro. Perché la verità, nuda e cruda, è che il Governo ha le mani sporche di sangue.
Il sangue dei detenuti, considerati l'ultimo anello della catena sociale, e ora, sempre più chiaramente, anche il sangue dei suoi stessi impiegati, logorati da un sistema che li ha traditi.
Ci stringiamo al dolore della famiglia del Sovraintendente, perché noi detenuti ed ex-detenuti, non facciamo differenze di fronte ad una perdita di una vita umana, noi abbiamo una coscienza, bisognerà vedere se a quei piani alti ne esiste ancora una, ammesso che l'abbiano mai avuta.