L’Inizio di un Viaggio Inaspettato
Entrare per la prima volta in un carcere non è un'esperienza come le altre.
È un passaggio che colpisce nel profondo, un impatto sensoriale violento che scuote la coscienza.
Il 24 giugno 1991, a 27 anni, ho varcato la soglia dell’Istituto Penitenziario di Genova Marassi per assumere il ruolo di vicedirettore.
Mi aspettavo rigidità, protocolli, disciplina.
Ma quello che ho trovato è stato un mondo a parte, con le sue regole non scritte, con il suo linguaggio fatto di sguardi, rumori, silenzi carichi di significato.
Odori, Rumori e la Prima Impressione
Il primo impatto è stato olfattivo.
Un odore pesante, stantio, una miscela di umidità, corpi ammassati, cibo rancido e disinfettante.
Poi i suoni: cancelli che sbattono, chiavi che tintinnano, voci che si accavallano in un caos senza fine.
Il suono della detenzione non è mai silenzioso, è un sottofondo continuo che annulla la percezione del tempo.
L'architettura del carcere parlava da sola: quattro livelli di passerelle, soffitti alti infestati dai piccioni, reti antisuicidio tese tra i piani.
Un luogo pensato più per contenere che per recuperare.
Un Nuovo Sistema, una Vecchia Mentalità
A quel tempo, il sistema penitenziario italiano era in una fase di transizione.
La smilitarizzazione del Corpo degli Agenti di Custodia aveva portato alla nascita della Polizia Penitenziaria, un cambiamento che riaccendeva speranze di riforma. C’era entusiasmo tra il personale, un senso di novità.
Io stesso ero animato dal desiderio di lavorare secondo i principi della Costituzione, di rendere il carcere qualcosa di diverso da una mera prigione senza volto.
Ma l’ottimismo si scontrava con la realtà.
La Contraddizione della Vita in Carcere
Il contrasto più forte era tra ciò che la legge prevedeva e ciò che realmente accadeva. Sulla carta, il carcere era regolato da norme precise, da calendari ben definiti.
Ma nella pratica, la vita dei detenuti era una monotonia opprimente, scandita da orari rigidi, da spazi anonimi, da un tempo che non apparteneva più a loro.
Ogni cella era una scatola spoglia, senza alcuna possibilità di personalizzazione. Cinquecento uomini diretti dal ritmo dell’istituzione, privati della libertà e, cosa ancora più devastante, privati dell’identità.
Un Impegno che Nasce dal Conflitto
Quel primo giorno non è stato solo l’inizio di un lavoro.
È stato l’inizio di una presa di coscienza.
Ho visto, ho sentito, ho compreso che il carcere, così com’era concepito, non aveva alcun reale scopo rieducativo.
Ho assistito alla disumanizzazione dei detenuti, ma anche allo sfinimento degli agenti, costretti a operare in un sistema che li logorava quanto i reclusi.
Ed è da quel giorno che ho deciso di impegnarmi per un cambiamento.
Un carcere che rispetti la Costituzione, che non sia solo punizione ma opportunità di riscatto.
Un carcere dove la dignità non sia un privilegio, ma un diritto.
Varcare la soglia di un carcere per la prima volta cambia il modo di vedere il mondo. Ti obbliga a fare i conti con la realtà nuda e cruda della detenzione, a chiederti se sia davvero questa la giustizia che vogliamo.
Da quel 24 giugno 1991, la mia visione è cambiata per sempre.
E da allora, non ho mai smesso di credere che un altro sistema sia possibile