Un detenuto di 52 anni si è tolto la vita nel carcere di Frosinone, a meno di un anno dalla fine della sua pena.
Un suicidio che pesa come una sentenza di condanna emessa da un sistema che abbandona e dimentica chi ha già pagato il proprio debito con la giustizia.
Il dramma si è consumato nel silenzio e nella solitudine di una cella sovraffollata, dove l’uomo ha trovato l’unica via d’uscita che il sistema gli ha lasciato: la morte.
Nessuno lo aspettava fuori, nessuno gli ha offerto una speranza.
Seguito dal Servizio per le Dipendenze, gli era stata proposta una misura alternativa, ma ha rinunciato, forse perché sapeva che la sua libertà sarebbe stata solo un’altra prigione, senza famiglia, senza sostegno, senza futuro.
E mentre lui si impiccava, il Garante dei detenuti sedeva a un tavolo con la ASL e la direzione del carcere per discutere di condizioni già note e ignorate da anni.
Perché questo non è un caso isolato: è il secondo suicidio in un carcere del Lazio dall’inizio dell’anno, ed è solo l’ennesimo di una lunga serie che continua a macchiare di sangue le mani di chi dovrebbe garantire la dignità della pena.
Il carcere di Frosinone è sovraffollato, con 60 detenuti in più della capienza massima, e versa in condizioni sempre più critiche.
Gli episodi di violenza contro il personale sanitario si moltiplicano, la Polizia Penitenziaria è ridotta allo stremo, ma il governo resta immobile.
Le istituzioni parlano di sicurezza e legalità, ma lasciano marcire le persone in strutture fatiscenti, private di ogni minima forma di assistenza e umanità.
Le responsabilità sono chiare: chi governa continua a chiudere gli occhi, mentre uomini e donne si spengono dietro le sbarre, consumati dalla disperazione e dall’abbandono.
Serve un intervento immediato e strutturale, non parole di circostanza dopo l’ennesima tragedia.
Fino a quando continueremo a contare i morti, senza chiamare i veri colpevoli a rispondere delle loro omissioni?