L'ennesimo, vergognoso capitolo della violenza Istituzionale si scrive tra le mura del carcere di Cuneo.
La Procura ha depositato la richiesta di rinvio a giudizio per 14 agenti della polizia penitenziaria, accusati a vario titolo di torture ai danni dei detenuti.
Un'accusa infamante, che getta un'ombra oscura sull'intero sistema penitenziario e sulla condotta di chi dovrebbe essere garante della legalità anche dietro le sbarre.
Per altri 21 poliziotti, inizialmente indagati, è stata chiesta l'archiviazione dopo ulteriori accertamenti, ma questo non scalfisce la gravità dei fatti contestati ai loro colleghi.
La brutale spedizione punitiva: Cronaca di una barbarie inaccettabile
L'episodio più agghiacciante, emerso dalle indagini, risale alla notte tra il 20 e il 21 giugno dell'anno scorso.
Un vero e proprio raid punitivo, orchestrato da diversi poliziotti, in quel momento addirittura fuori servizio, che si sarebbero introdotti nella cella 417 del padiglione "Gesso". Le vittime designate: cinque detenuti.
La loro "colpa"? Aver osato protestare, battendo sui blindi, perché un altro recluso, nella cella accanto, implorava da ore assistenza medica per forti dolori alla gamba, senza ricevere alcuna risposta.
La reazione è stata di una violenza inaudita: i cinque detenuti sarebbero stati selvaggiamente colpiti con calci e pugni al volto.
Un pestaggio in piena regola, una dimostrazione di forza brutale che nulla ha a che vedere con il mantenimento dell'ordine e della sicurezza.
Due pesi e due misure: L'ipocrisia di un sistema indifferente
Di fronte a questi fatti, definiti dalla stessa Procura di Cuneo come un "trattamento inumano e degradante per la persona", capace di infliggere un "verificabile trauma psichico" alle vittime, sorge spontanea una domanda carica di sdegno: perché?
Perché episodi di questa gravità, che purtroppo si ripetono con una frequenza allarmante nelle carceri italiane, scivolano via con un'eco mediatica spesso insufficiente, quasi normalizzati nell'indifferenza generale?
È inevitabile il confronto con la reazione pubblica e istituzionale scatenata da altri eventi. Pensiamo al cosiddetto "caso Di Maria", un fatto tragico che, pur essendo forse il primo di quella specifica natura in almeno vent'anni, è diventato un vero e proprio caso di Stato.
Un singolo episodio che ha portato a mettere in discussione l'intero istituto del lavoro esterno per i detenuti, sollevando polveroni e invocando misure drastiche.
E allora, perché questa disparità di giudizio?
Perché, di fronte a torture e pestaggi sistematici perpetrati da chi indossa una divisa dello Stato, non si arriva mai a mettere in discussione, con la stessa veemenza, l'intero corpo della Polizia Penitenziaria, le sue logiche interne, i meccanismi di controllo e la cultura che, evidentemente, in alcuni contesti permette o addirittura fomenta tali abusi?
Forse perché alcune vittime fanno meno notizia di altre?
O perché criticare certi apparati dello Stato è un tabù che pochi osano infrangere?
Le parole della Procura e l'attesa di Giustizia
Le carte della Procura parlano chiaro, delineando un quadro di abusi intollerabili.
Non si tratta di "mele marce" isolate, ma di un meccanismo che, nel caso specifico, ha visto più soggetti agire con presunta premeditazione e violenza.
L'archiviazione per 21 degli iniziali 35 indagati, seppur frutto di "accertamenti migliori dei fatti", non deve far distogliere lo sguardo dalla gravità delle accuse che pendono sui 14 agenti per cui si chiede il processo.
L'udienza preliminare, fissata per il prossimo 20 giugno, sarà un primo, cruciale banco di prova per la ricerca della verità e della giustizia.
Una giustizia che non può e non deve essere più clemente con chi, abusando del proprio potere e della propria uniforme, infligge sofferenze e umiliazioni a persone già private della libertà.
È in gioco la credibilità stessa dello Stato di diritto, che non può tollerare zone franche dove la barbarie sostituisce la legge.
È ora che si faccia piena luce, senza sconti e senza ipocrisie.