Il sistema Giudiziario Italiano mostra ancora una volta la sua intollerabile indulgenza verso chi, indossando una divisa, tradisce il proprio mandato e si macchia di atti barbarici.
La Corte d'Appello di Firenze ha sì confermato le condanne per tortura – una parola che dovrebbe far rabbrividire, specialmente se associata a servitori dello Stato – contro agenti della Polizia Penitenziaria del carcere di San Gimignano (Ranza), ma lo ha fatto con una mano fin troppo leggera per alcuni.
Una decisione che grida vendetta di fronte alla violenza inaudita perpetrata nel 2018 ai danni di un detenuto tunisino.
Sentenze mite per chi doveva proteggere
Dieci agenti, che furbescamente avevano scelto il rito abbreviato, si vedono confermate pene che oscillano tra i ridicoli 2 anni e 3 mesi e i 2 anni e 8 mesi.
Pene che suonano come una beffa di fronte all'accusa infamante di tortura e lesioni aggravate.
Non dimentichiamolo: la violenza commessa da chi detiene il potere e la responsabilità di custodia è mille volte più grave di qualsiasi reato possa aver commesso la vittima.
La divisa, invece di rappresentare un'aggravante morale e giuridica, sembra fungere ancora da scudo inaccettabile.
Lo scandalo delle pene ridotte
Ma è sul fronte dei cinque agenti che avevano affrontato il rito ordinario che la vergogna raggiunge l'apice.
La Corte d'Appello ha concesso scandalose riduzioni di pena.
Tre operatori, con gradi più alti e quindi con responsabilità maggiori, vedono le loro pene ridotte ma comunque superiori ai 4 anni – soglia psicologica che forse serve solo a salvare le apparenze?
Altri due se la cavano con 4 anni e 3 anni e 8 mesi.
Ricordiamo che si parla di accuse gravissime: tortura, falso, minaccia aggravata. Crimini odiosi, resi ancora più abietti perché commessi da chi rappresenta lo Stato. Eppure, persino il Procuratore Generale aveva chiesto sconti, partendo da condanne iniziali già ritenute da molti inadeguate.
Un tradimento dello Stato di diritto
Questo verdetto è un pugno nello stomaco per chi crede nella giustizia e nello Stato di diritto.
La violenza perpetrata da chi ha il dovere sacro di proteggere, di garantire la legalità anche dentro le mura di un carcere, non è semplicemente un reato: è un tradimento profondo, un cancro che mina la fiducia stessa nelle Istituzioni.
È intrinsecamente e moralmente mille volte più grave di qualsiasi azione possa aver compiuto la persona detenuta, perché chi abusa del potere conferitogli dallo Stato commette un attacco diretto ai fondamenti della convivenza civile.
Questo non è un "incidente", è la manifestazione di un sistema che tollera l'intollerabile.
Cassazione: Ultima speranza o ennesima delusione?
Si attendono ora le motivazioni entro 90 giorni, dopodiché le difese, come prevedibile, ricorreranno in Cassazione.
La speranza che la Suprema Corte possa finalmente rendere vera giustizia, riaffermando con forza che nessuno è al di sopra della legge, specialmente chi la legge dovrebbe farla rispettare con integrità, è appesa a un filo sottile.
Questo caso, indipendentemente dall'esito finale, resterà una macchia indelebile e un monito su quanto sia ancora lunga, tortuosa e terribilmente difficile la strada per estirpare l'abuso di potere in divisa dal nostro Paese.