Sette anni.
Sette lunghi anni trascorsi in un letto, in stato vegetativo permanente.
È il tragico destino di un detenuto che, nel marzo 2018, tentò il suicidio mentre era ricoverato nella cella sanitaria dell'ospedale Santissima Annunziata di Taranto.
Un dramma umano che ora chiama in causa due agenti della polizia penitenziaria, per i quali la Procura ha chiesto una condanna severa: 3 anni e 6 mesi ciascuno.
Ma dietro le accuse formali, aleggia un dubbio pesante: si trattò "solo" di negligenza o c'è dell'altro che non sappiamo?
L'accusa: Una sorveglianza fallita e un ritardo inspiegabile
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, i due agenti avevano il compito preciso di sorvegliare il detenuto h24, grazie a un sistema di videosorveglianza che inquadrava la stanza.
Un compito apparentemente semplice, ma che quel 25 marzo si sarebbe trasformato in una falla fatale.
Mentre l'uomo legava un maglione alla porta del bagno e se lo stringeva al collo, i minuti passavano inesorabili.
L'accusa parla di un ritardo nell'intervento di circa 25-30 minuti.
Un lasso di tempo interminabile, sufficiente a causare danni cerebrali irreversibili per la prolungata mancanza di ossigeno.
Viene da chiedersi: com'è stato possibile un simile ritardo con una sorveglianza video attiva?
Erano davvero distratti o c'è una spiegazione che ancora non emerge?
Le accuse formulate dalla Procura sono gravissime: omissione di atti d’ufficio e lesioni gravissime come conseguenza di altro delitto.
Il tentativo di insabbiamento: Quel video scomodo
Ma l'aspetto più inquietante della vicenda, quello che alimenta i sospetti su verità nascoste, riguarda il presunto tentativo di far sparire le prove (come accade quasi sempre, Ndr)
Le telecamere, ovviamente, avevano ripreso tutto.
Secondo l'accusa, però, quel filmato sarebbe stato deliberatamente cancellato.
Si legge negli atti che il file video sarebbe stato trasferito su un hard disk esterno, portato via dagli imputati e poi eliminato.
Un'azione gravissima, che configura i reati di falso materiale e soppressione di atto pubblico.
Il fatto che il PM Marzia Castiglia sia riuscita, a sorpresa, a depositare quel video considerato scomparso, non cancella la gravità del presunto tentativo di insabbiamento.
Cosa conteneva quel video di così compromettente da spingere, secondo l'accusa, a cercare di farlo sparire? Era solo la prova della negligenza o mostrava dettagli ancora più scomodi?
Domande senza risposta: Quanti casi simili rimangono nell'ombra?
Questo caso solleva interrogativi inquietanti che vanno oltre le responsabilità individuali dei due agenti.
Davvero possiamo accontentarci della spiegazione di un semplice, seppur tragico, errore umano o di una negligenza isolata?
La facilità con cui, secondo l'accusa, si è tentato di occultare un video cruciale, fa sorgere il dubbio atroce: quanti altri episodi simili, anche meno gravi ma comunque sintomo di un sistema che non funziona, restano insabbiati?
Quante verità scomode sulla reale condizione della sorveglianza e della gestione dei detenuti, soprattutto quelli con fragilità, non emergono mai?
Mentre il processo farà il suo corso, resta l'amarezza per una vita spezzata e l'ombra pesante di un sistema che, in questo caso, sembra aver fallito su più fronti: nella prevenzione, nella vigilanza e, potenzialmente, nella trasparenza.
La richiesta di condanna è un passo necessario, ma la verità completa, forse, deve ancora essere scritta.