La situazione nel carcere maschile di Rebibbia è drammatica e non può più essere ignorata.
La visita ispettiva della responsabile Nazionale Giustizia del Partito Democratico, Debora Serracchiani, e della componente della Commissione Giustizia della Camera, Michela Di Biase, ha rivelato uno scenario al limite del collasso.
1560 detenuti stipati in una struttura pensata per 1170 posti, con una carenza devastante di 300 agenti di Polizia penitenziaria rispetto all'organico previsto.
Una crisi di personale senza precedenti
Il personale penitenziario, già sottoposto a turni massacranti, è costretto a lavorare in condizioni inaccettabili.
A fronte dei circa 700 agenti in servizio, ne mancano almeno 300 per garantire una sorveglianza adeguata e la sicurezza sia dei detenuti che degli stessi operatori. Questa grave insufficienza incide non solo sulla gestione quotidiana del carcere, ma anche sulla capacità di prevenire episodi di violenza, tentativi di suicidio e rivolte.
Strutture fatiscenti e manutenzione inesistente
Gli edifici del carcere sono fatiscenti, con diverse sezioni chiuse per mancanza di manutenzione.
Il risultato? Spazi ulteriormente ridotti nelle celle già sovraffollate, compromettendo la dignità umana e violando i più basilari diritti dei detenuti.
I camminamenti relativi ad alcuni reparti sono impraticabili, simbolo di una gestione strutturale al collasso.
Sanità penitenziaria: un diritto negato
La situazione della sanità penitenziaria è altrettanto critica.
La carenza di personale medico e infermieristico rende impossibile garantire un'assistenza sanitaria adeguata, aggravando ulteriormente le condizioni psicofisiche dei detenuti.
Molti di loro soffrono di patologie gravi e non ricevono cure tempestive ed efficaci.
Di fronte a questa emergenza, Serracchiani e Di Biase lanciano un appello accorato al Governo affinché intervenga con misure urgenti e concrete.
Non è più accettabile lasciare le carceri italiane in uno stato di degrado tale da mettere a rischio la sicurezza, la salute e la dignità delle persone.
L'Italia dei diritti umani deve rispondere. Il silenzio è complicità.