Le immagini delle telecamere di sorveglianza del carcere di Reggio Emilia parlano una lingua brutale e inequivocabile.
Mostrano un branco di agenti della polizia penitenziaria che si accanisce su un detenuto.
Lo incappucciano con una federa stretta al collo, quasi a soffocarlo, lo denudano e lo colpiscono bestialmente con calci e pugni.
Non contenti, lo trascinano sanguinante in una cella d'isolamento e lo abbandonano lì, nudo e ferito, per un'ora interminabile di agonia, durante la quale l'uomo arriva a compiere gesti di autolesionismo, spaccando il lavandino e inondando il corridoio di acqua e sangue.
Fatti di una gravità insopportabile, documentati e palesi.
Eppure, per il tribunale di Reggio Emilia, tutto questo non è tortura.
Una sentenza, emessa in primo grado con rito abbreviato, le cui motivazioni, appena depositate, suonano come un insulto alla civiltà giuridica e alla dignità umana, suscitando sdegno e incredulità.
Un processo simbolo contro un sistema malato
Il processo vedeva imputati dieci agenti penitenziari, accusati a vario titolo di tortura, lesioni e falso per il pestaggio avvenuto il 3 aprile 2023.
La forte presenza di parti civili – dal Garante Nazionale dei Detenuti, al Garante Regionale emiliano, fino ad associazioni storiche come Antigone Onlus e Yairaiha ETS – sottolineava la portata simbolica del caso. Non si trattava solo di un detenuto ma di denunciare un modello sistemico di abusi che troppo spesso rimane impunito tra le mura carcerarie.
Le motivazioni della vergogna: La giustificazione inaccettabile
Come si può arrivare a negare l'evidenza?
La giudice tenta una pericolosa acrobazia logica, cercando di contestualizzare l'orrore.
La violenza sarebbe avvenuta durante l'esecuzione di una sanzione disciplinare (15 giorni di isolamento per minacce alla direttrice).
L'incappucciamento disumano e il denudamento umiliante vengono derubricati a "parte di una perquisizione straordinaria", motivata dal presunto, e mai provato, sospetto che il detenuto nascondesse lamette in bocca.
Questa fragile scusa, basata su un timore considerato "non infondato" nonostante l'assenza di qualsiasi riscontro, diventa la chiave per negare la tortura. Il tribunale ritiene che gli agenti agissero per "esigenze di sicurezza", seppur gestite male. Un tentativo patetico di mascherare la violenza gratuita dietro un velo di necessità operativa.
L'interpretazione che svuota la legge
È la stessa giudice a descrivere l'orrore nelle motivazioni: l'incappucciamento con federa annodata e stretta al collo, lo sgambetto per farlo cadere, la "serie di percosse, schiaffi, calci", le manipolazioni fisiche, il trascinamento, i colpi ripetuti anche dentro la cella, l'abbandono dell'uomo completamente nudo dalla cintola in giù, sanguinante, per oltre un'ora.
Eppure, incredibilmente, tutto questo non basta.
Secondo la "legittima interpretazione" della giudice, le violenze non sarebbero state "gratuite" ma ricondotte a una "logica di contenimento", escludendo così il dolo specifico della tortura.
Come se picchiare un uomo inerme, incappucciato e nudo, potesse mai rientrare in un contesto che non sia pura barbarie e sadismo.
Le lesioni fisiche (ematomi, contusioni) vengono liquidate come guaribili in 20 giorni, una minimizzazione vergognosa che ignora la sofferenza acuta e il trauma psicologico.
Le ferite da autolesionismo? Esclusiva responsabilità del detenuto, ovviamente.
Una lettura che svuota di significato il reato di tortura, introdotto a fatica nel nostro ordinamento.
Il verdetto: Uno schiaffo alla giustizia
Risultato finale? Niente tortura e niente lesioni aggravate.
Le accuse vengono derubricate ai reati, ben meno gravi, di abuso d'autorità e percosse aggravate (il falso in atto pubblico viene invece confermato per tre imputati).
Questa sentenza è uno schiaffo alle vittime di abusi nelle carceri, un segnale devastante che sembra legittimare pratiche violente e degradanti sotto la maschera della "continenza operativa".
Normalizza l'inaccettabile e pone una domanda angosciante:
Se questa non è tortura, quale comportamento potrà mai esserlo?