Il Consiglio dei Ministri ha varato a tempo di record un nuovo decreto legge sulla sicurezza, assorbendo il precedente disegno di legge e bypassando di fatto un'ulteriore discussione parlamentare approfondita.
Una mossa giustificata ufficialmente con la necessità di "tempi certi", ma che tradisce una fretta preoccupante, spinta da esigenze politiche e dalle richieste, come ammesso, della polizia penitenziaria.
Mentre figure come Matteo Salvini esultano per quelle che definiscono "promesse mantenute" – tra cui norme sugli sgomberi e altre misure di controllo sociale – è nel cuore del sistema penitenziario che questo decreto rischia di infliggere le ferite più profonde e insanabili.
La premier Meloni nega il "blitz", parlando di "impegni presi", ma la sostanza rivela un quadro allarmante proprio sul fronte carcerario.
La nuova, inquietante norma sulla rivolta carceraria
Il punto più critico e fonte di seria preoccupazione riguarda gli articoli 26 e 27 del nuovo provvedimento.
Questi configurano il nuovo reato di rivolta nelle carceri (applicabile anche a CPR e hotspot), estendendolo pericolosamente anche ai casi di resistenza passiva.
È sufficiente che tale resistenza "impedisca il compimento degli atti necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza" per far scattare una pena da uno a cinque anni.
Questa norma, richiesta esplicitamente – come confermato dal Ministro Nordio – dalla polizia penitenziaria, rappresenta una "tutela ulteriore" per gli agenti, ma a quale prezzo?
Si apre così la porta a una repressione indiscriminata di qualsiasi forma di protesta o dissenso all'interno delle mura carcerarie, anche di fronte a possibili abusi o violazioni.
È un segnale devastante per la tutela dei diritti fondamentali in un contesto già segnato da sovraffollamento e tensioni.
Donne incinte e madri: Detenzione "attenuata" è davvero una risposta?
Il decreto interviene anche sulla detenzione di donne incinte o madri di bambini piccoli (art. 15), prevedendo ora come obbligatoria (non più facoltativa) l'esecuzione della pena in istituti a custodia attenuata (ICAM).
Sebbene possa apparire formalmente come un passo avanti rispetto al carcere ordinario, resta una misura detentiva che incide profondamente sulla vita di donne e bambini in condizioni di estrema vulnerabilità.
In un quadro generale di inasprimento e controllo, questa misura non cancella la seria preoccupazione per l'approccio punitivo verso figure fragili, inserendosi in un contesto che vede la libertà personale sempre più compressa.
Un contesto di stretta generale sulle libertà
Sebbene il focus di questa analisi sia sulle carceri, è impossibile ignorare come queste misure si inseriscano in un pacchetto più ampio che rafforza i poteri delle forze dell'ordine, inasprisce le pene per chi protesta (come nel caso dell'aggravante "No Ponte", pur leggermente modificata) e mantiene un impianto proibizionista su altri fronti.
Il messaggio complessivo è chiaro: una stretta sulla sicurezza che colpisce duramente i diritti, con le carceri italiane che diventano il laboratorio di una repressione sempre più marcata e preoccupante.
Le timide modifiche richieste dal Quirinale su altri punti (come la vendita di SIM ai migranti o la collaborazione con i servizi segreti) non intaccano la gravità dell'impianto generale, soprattutto per quanto concerne il mondo carcerario.
Questo decreto segna un passo indietro inaccettabile, un presagio oscuro per le libertà di tutti.