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Affettività in carcere: Il rifiuto della Polizia Penitenziaria, anche questo configura il reato di resistenza passiva !

La circolare Dap sull'affettività in carcere scatena la protesta del Sappe. Ma il presunto rifiuto della Polizia Penitenziaria di garantire la sorveglianza configura "resistenza passiva"? Un doppio standard alla luce del DL Nordio che impone severi interrogativi
18 aprile 2025 di
Affettività in carcere: Il rifiuto della Polizia Penitenziaria, anche questo configura il reato di resistenza passiva !
L R

La circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) che cerca di dare attuazione al diritto all'affettività in carcere sta sollevando non un dibattito, ma una vera e propria ostilità da parte di chi dovrebbe garantirne l'applicazione: la Polizia Penitenziaria
Un fronte compatto, guidato dal Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe), ha espresso la propria ferma opposizione tramite una lettera formale indirizzata ai vertici della Giustizia.

Il "rifiuto" mascherato?

Al centro della fortissima contestazione del Sappe, guidato dal segretario generale Donato Capece, non c'è una semplice richiesta di chiarimenti o di migliori condizioni operative. 
C'è, piuttosto, un palese rifiuto di assolvere al compito di sorveglianza necessario a rendere concretamente attuabile il diritto all'intimità riconosciuto dalla Corte Costituzionale. 
Capece definisce "inaccettabile" che al personale penitenziario venga richiesto di assumere mansioni ritenute "estranee".

Ma cosa significa "estranee"? La semplice garanzia di sicurezza e sorveglianza passiva di uno spazio non può essere considerata estranea alla missione di un corpo di polizia interno agli Istituti di pena. 
La retorica del "non ci siamo arruolati per diventare ‘guardoni di Stato’" appare, in questo contesto, un argomento debole per giustificare una presunta inerzia che, di fatto, impedisce l'effettiva fruizione di un diritto riconosciuto. 
Definire la richiesta di semplice presenza vigile come un "vile la dignità professionale" sa più di pretesto che di legittima preoccupazione.

Resistenza passiva: Due pesi, due misure?

Ed è proprio qui che sorge un interrogativo improcrastinabile e scomodo, alla luce delle recenti disposizioni legislative. 
Il Decreto Legge "Sicurezza" del Ministro Nordio ha introdotto e rafforzato il concetto di "resistenza passiva", sanzionando severamente chi, con condotta inerte ma ostruzionistica, impedisce o ritarda l'azione della pubblica autorità.

Ora, se è vero che il compito di sorveglianza passiva (garantire la sicurezza dello spazio senza violare l'intimità) rientra tra le mansioni connesse alla gestione ordinaria di un Istituto Penitenziario, il presunto e dichiarato rifiuto di adempiere a tale mansione da parte della Polizia Penitenziaria configura o meno una forma di "resistenza passiva"
La legge si applica solo ai cittadini e ai detenuti che si oppongono all'autorità, o vale anche per chi, all'interno delle forze dell'ordine, impedisce l'applicazione della legge o l'attuazione di diritti riconosciuti, adducendo motivazioni di opportunità o presunta "dignità professionale" che non giustificano l'inadempienza?

Sicurezza e attuazione del diritto: Doveri e non pretesti

Le preoccupazioni legittime sulla gestione di detenuti problematici o ristretti in sezioni speciali, sollevate anche dal deputato della Lega Jacopo Morrone, non possono e non devono diventare un pretesto per bloccare l'attuazione di un diritto Costituzionale, sottolineato recentemente dalla Corte Costituzionale come parte integrante del percorso rieducativo (articolo 27 Costituzione).

La Polizia Penitenziaria ha il dovere di garantire la sicurezza anche all'interno degli spazi dedicati all'affettività, con le opportune procedure e garanzie che lo Stato deve fornire. 
Non si tratta di un "benefit" da concedere a discrezione, ma dell'attuazione di un principio imposto dalla Costituzione e dalla giurisprudenza. 
La percezione dei cittadini, per quanto importante, non può derogare ai diritti fondamentali e ai doveri di chi rappresenta lo Stato.

Il dibattito sull'affettività in carcere rivela dunque una tensione pericolosa: da un lato, l'esigenza (e il dovere dello Stato) di attuare diritti fondamentali; dall'altro, una evidente e preoccupante resistenza da parte di una componente cruciale del sistema, che pare invocare una sorta di immunità rispetto ai concetti di adempimento del dovere e "resistenza passiva" che essa stessa è chiamata a far rispettare nei confronti degli altri. 
La questione non è solo organizzativa, ma legale e etica: chi garantisce che la legge venga applicata quando chi dovrebbe farlo sembra ergersi al di sopra di essa, impedendone di fatto l'attuazione con un presunto atteggiamento di "resistenza passiva"?

A voi i commenti....