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Ho Vissuto l'Inferno Dantesco tra le Mura di un Carcere Italiano: la Testimonianza di Marta

Marta, 34 anni, ex imprenditrice, ha trascorso tre anni nel carcere di Opera. La sua storia è un pugno nello stomaco, un viaggio crudo nella disumanità del sistema carcerario italiano, un racconto di sopravvivenza e delle cicatrici indelebili che l'inferno lascia sull'anima.
8 giugno 2025 di
Ho Vissuto l'Inferno Dantesco tra le Mura di un Carcere Italiano: la Testimonianza di Marta
Alessandra
0 19
Mi chiamo Marta, ho 34 anni. La mia vita, un tempo, era quella di un'imprenditrice nel campo farmaceutico, una vita "normale" con un marito, due figli, amici. 
Non eravamo mondani, ma la serenità delle piccole cose ci apparteneva. 
Poi, nel 2021, il buio. L'arresto è stato un colpo al cuore, sono svenuta. 
Ci ho messo tempo a capire cosa stesse accadendo, a realizzare che stavo per entrare in un incubo da cui sarei uscita tre anni dopo, segnata per sempre. 
L'istituto penitenziario di San Vittore è diventato la mia prigione.

L'eco spezzata di una vita "normale"

Prima ero una donna con una carriera, una famiglia. 
L'arresto ha frantumato tutto questo in un istante. 
L'ingresso in carcere è stato come precipitare in un baratro di incredulità e terrore. 
Da un giorno all'altro, non ero più Marta, l'imprenditrice, la moglie, la madre. 
Ero un numero, un corpo da confinare.

Dietro le sbarre: la discesa nell'annullamento

I primi tempi sono stati terribili. Le giornate erano un vuoto infinito, scandito solo dalla televisione che dovevo condividere in una cella di circa 6 metri quadri con altre tre detenute, due delle quali straniere. 
Eravamo a regime aperto, potevamo spostarci di cella in cella durante le ore consentite, ma sempre confinate nella stessa sezione. 
Avevamo diritto a quattro ore di "passeggi", ma chiamarlo così è un eufemismo: era un luogo triste, abbandonato, circondato da cemento grigio. 
D'inverno gelido, d'estate un forno.

Ogni tanto capitava di "lavorare": 300 euro al mese per pulire la sezione. 
Una cifra ridicola, un vero sfruttamento. La follia di essere sfruttati persino in carcere.

Gli aspetti più duri? La lontananza dai miei figli, il dolore immenso. 
Mio marito mi ha lasciata mentre ero dentro, un altro pezzo di me che si sgretolava. 
La convivenza forzata in spazi ristretti con persone con cui non condividevo nulla, le regole assurde, spesso giustificate dalla cosiddetta "sicurezza", che non facevano altro che complicare una situazione già esplosiva.

Il rapporto con gli Agenti penitenziari, in maggioranza donne, era glaciale. 
Forse indurite da anni di quel lavoro, difficilmente mostravano gentilezza o cortesia. 
Non erano mostri, ma per loro semplicemente non esistevi se non creavi problemi. 
Se diventavi un problema, allora sì che esistevi, eccome, e te ne facevano passare la voglia.

Con alcune detenute c'era solidarietà, un po' di empatia. Ma con le straniere, che spesso non parlavano italiano, era difficile persino comunicare. Molte avevano una mentalità completamente diversa dalla mia, per loro il carcere era quasi una casa, essendo state dentro più volte. Questo mi faceva sentire sempre più a disagio, un'"ospite" spesso indesiderata.

L'orrore quotidiano: Quando l'abitudine diventa disumana

C'è un episodio, anzi, una serie di episodi a cui, mio malgrado, mi sono abituata: i gesti di autolesionismo. La gente provava continuamente a togliersi la vita. 
Le scene erano strazianti: pareti intrise di sangue, urla di disperazione. 
La cosa che mi ha lasciato il segno più profondo è come sia possibile che io, essere umano, possa essermi abituata a tutto questo.

Sì, ho avuto costantemente la sensazione di non essere trattata come un essere umano. 
Le condizioni in cui vivevamo erano la prova. La gente fuori dovrebbe sapere che non è affatto vero che abbiamo tutte le comodità di cui si parla. 
Spesso dormiamo anche in inverno senza vetri alle finestre, su materassini di spugna consumati dal tempo, puzzolenti, sporchi, così sottili da farti sentire il ferro gelido della branda. Le celle sono fetide, l'igiene una chimera. La sanità non esiste. 
Se ti ammali, è la fine. 
I tempi per essere presa in cura, prima dalla struttura e poi da un ospedale, sono biblici. Spesso si muore in attesa di una visita. Nulla di tutto questo è umano. Nulla all'interno di un carcere assomiglia lontanamente al trattamento che un essere umano dovrebbe ricevere, anche se ha commesso dei reati.

Resistere all'inferno, ritrovare un barlume di Sé

Cosa mi ha aiutato a resistere? Inizialmente, i miei figli e mio marito. 
Poi, dopo essere stata abbandonata da lui, ho raccolto ogni briciolo di forza per i miei figli. Non sono mancati i momenti bui, il pensiero di farla finita era fisso, ricorrente. 
Forse sono ancora viva per puro caso. Se fosse scattato quel minuscolo ingranaggio, probabilmente mi sarei tolta la vita senza neppure accorgermene.

Il carcere ti segna. Ti segna il fisico, ti segna l'anima. Sono ferite indelebili. 
Le puoi curare, ma ci vuole tempo, bisogna saperlo fare. 
Serve un supporto esterno, uno psichiatra, psicoterapia. 
Ma la tua vita non tornerà mai più quella di prima. Dentro di te sarai una persona devastata per sempre. Anche quando penserai di aver superato il trauma, il vissuto dentro quelle mura sarà sempre lì, pronto a colpirti con una forza tale da rendere inutile qualsiasi protezione tu ti sia costruita.

Alla me stessa di allora direi: "Stai lontana migliaia di chilometri da situazioni che possono trasformarsi in reati e farti finire in quell'inferno dal quale non tornerai mai più la stessa. 
Non ne vale la pena."

Un appello alla società: oltre il pregiudizio, c'è una persona

Vorrei che la società capisse che gran parte dei detenuti sono persone che stanno pagando a caro prezzo i loro errori e che continueranno a pagarli anche dopo aver scontato la pena, a causa del pregiudizio. Vorrei che la gente comprendesse che non tutti i detenuti sono irrecuperabili. 
Il giustizialismo che imperversa nel sentimento comune non fa che peggiorare le cose: alimenta la violenza di chi è dentro e di chi è fuori, non concede la possibilità di riscatto che la legge prevede e, soprattutto, trasforma una condanna, anche di tre anni, in un ergastolo. E questo non è giusto.

Oggi sogno la semplicità. Stare lontana da situazioni che possano mettere a rischio la mia libertà e farmi ricadere in quell'incubo. Questa volta non potrei affrontarlo, ne uscirei morta. Sogno le piccole cose, i momenti di gioia con i miei figli, i sorrisi delle persone, il calore umano, un semplice abbraccio. Dormire in un letto che mi faccia sentire coccolata come essere umano.

Quell'inferno che pensavo esistesse solo nella Divina Commedia, io l'ho trovato e l'ho vissuto tra le quattro mura di un carcere italiano. 
Questa è la sintesi di ciò che ho vissuto e imparato. 
La mia esperienza è stata devastante, infernale, surreale.

Marta

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